Siamo giunti alla fase campale della stagione. L’Inter ha dilapidato un buon vantaggio sulle inseguitrici e, da due giorni, non è più padrona del proprio destino e l’obiettivo seconda stella, adesso, è un po’ più lontano. Nulla è perduto, sia chiaro, la Beneamata è ancora in corsa. Per rimanerci, ovviamente, ha bisogno di risposte dal campo: ottenere un gran numero di punti, possibilmente un filotto, nelle ultime dieci partite. Vien da sé che l’unità di spogliatoio, la coesione, il fatto che tutte le componenti remino verso la stessa direzione diventino elementi propedeutici alla corsa verso il titolo.
E allora diventa inammissibile che, in una fase cruciale per i destini nerazzurri, alcuni tesserati continuino a propendere verso i personalismi, l’egocentrismo, quasi il narcisismo (ingiustificato). Già, perché Vidal e Sanchez, nelle ultime settimane, sono due calciatori che – con le loro dichiarazioni – hanno sollevato polemiche più o meno implicite in merito alla gestione del gruppo da parte dell’allenatore. L’attaccante lo ha fatto con le dichiarazioni post-partita nelle quali si autoprofessa campione e con le storie Instagram, nelle quali si autoprofessa leone (spesso in gabbia, perché l’allenatore non lo vede…); il centrocampista, invece, ha rilasciato ieri alcune dichiarazioni fuori luogo, con frecciatine sul suo mancato impiego e (ovviamente) su quello del connazionale.
È francamente inaccettabile che giocatori di questa esperienza polemizzino con l’allenatore entrando nel campo delle sue scelte (la chiosa di Vidal, “queste comunque sono decisioni di Inzaghi”, è fuori contesto, nel momento in cui in quelle decisioni è di fatto entrato). È inaccettabile, inoltre, che il malumore venga esternato a marzo: legittimo non essere felici professionalmente, ma la finestra estiva esiste proprio per risolvere situazioni di questo tipo. È inaccettabile, infine, il fatto che esista l’aggravante costituita dall’alto ingaggio percepito da entrambi, che al momento risultano i due più pagati della rosa nerazzurra, nonostante le prestazioni dicano che c’è chi meriterebbe di esserlo più di loro.
Lo scorso anno l’Inter riuscì a costruire le fondamenta del successo finale grazie allo spirito di gruppo, alla coesione, al silenzio nei momenti chiave. Quando, da gennaio in poi, gli stipendi cominciarono a latitare (così come la proprietà), Antonio Conte fu in grado di isolare i suoi ragazzi da ogni problematica esterna, chiedendo massima concentrazione sugli obiettivi sportivi, puntualmente raggiunti lo scorso 2 maggio con uno Scudetto che mancava da 11 anni. Nessuno, all’Inter, osò “alzare la cresta” neppure quando il vantaggio si fece cospicuo e un rilassamento poteva essere temuto. Quest’anno, invece, è tutto in ballo e i nerazzurri, ad oggi, inseguono. Dov’è finito il noi prima dell’io?
E allora, per questo finale, pretendiamo la massima dedizione e non accettiamo che qualcuno si possa metaforicamente accomodare su un piano privilegiato rispetto ai suoi compagni. Simone Inzaghi farebbe bene ad abbandonare l’atteggiamento compiacente, accondiscendente, consolatorio nel momento degli errori. All’Inter non funziona, c’è una storia più che secolare a raccontarlo. E nessuno può permettersi di ignorare quella storia che parla di sacrifici, sudore, fatica, nessun privilegio. Per raggiungere ogni singolo obiettivo, per amore di quella meravigliosa e gloriosa maglia.
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