Era gennaio quando l’Inter strappò a Gleison Bremer la promessa (e che promessa…) di scegliere il club nerazzurro a discapito di ogni altro, trovando addirittura una prematura intesa sull’ingaggio da garantire al difensore brasiliano. Sette mesi sono trascorsi: sette mesi di discorsi, di formazioni con Bremer in difesa, di sicurezza granitica che il giocatore non si sarebbe discostato dalla sua posizione. Sette mesi di parole, tante parole, di ammissioni da parte del mondo Inter che sì, il giocatore interessava e no, nessuna smentita sull’accordo già raggiunto. Mancava, però, un dettaglio non irrilevante: c’era da staccare l’assegno e spedirlo verso Torino. È così, d’altronde, che si chiudono davvero le trattative. I tanti parametri zero che vengono trattati in Viale della Liberazione (per forza di cose, difficile fare altro quando non c’è un budget) hanno forse causato una distorsione nella comprensione delle normali dinamiche di mercato. Ebbene, quando un calciatore è sotto contratto bisogna anche pagare il cartellino, prima o poi.
E allora succede che sette mesi vengano polverizzati in due giorni. Come? Ma guarda un po’, con quel mezzo non proprio secondario chiamato moneta. Moneta che soddisfa il Torino e il giocatore stesso, che a lungo tempo ha atteso l’Inter. Si può sollevare quanto si vuole un tema morale, a proposito della vacuità della “parola” del giocatore, se ne può fare una questione d’onore, di inaffidabilità. Peccato che Bremer non sia nato interista bensì a Itapitanga, Bahia, Brasile, e nulla lo leghi all’Inter se non quella parola, probabilmente non la più affidabile di questo mondo, siamo d’accordo. Possiamo sperare che se ne penta, un po’ come accaduto a Kulusevski un paio d’anni fa, quando preferì la Juventus all’Inter. Nient’altro. Prendersela col giocatore significa ricadere in un errore che molto spesso i tifosi interisti hanno commesso negli ultimi anni(e nell’ultimo, in particolare): guardare il dito e non la luna. All’inizio fu colpa di Mancini, poi di Sabatini, di Conte, di Oriali, di Hakimi. Difficile credere a questa narrazione. Risulterebbe difficile anche per un bambino.
Posto che in Viale della Liberazione tutti sono rimasti spiazzati ed il piano di sostituire Skriniar con Bremer ottenendo un disavanzo positivo di circa 30-40 milioni è bruscamente saltato, analizziamo le responsabilità della vicenda, partendo dai dirigenti e terminando con la madre di tutti i problemi.
La dirigenza: lavorare così è difficile per chiunque, ma…
Partiamo da un presupposto: fare mercato districandosi fra gli assurdi paletti imposti dalla proprietà sarebbe impresa ardua per chiunque. Tuttavia, nel momento in cui Marotta e Ausilio sono rimasti all’Inter, lo hanno fatto ben consapevoli delle richieste di Suning, accettando di gestire le trattative anche in una situazione così difficile. È ingenuo pensare che la dirigenza non fosse a conoscenza del fatto che ci fosse bisogno di fare cassa prima di fiondarsi su Bremer. Il giocatore scelto per farlo era (anzi, lo è tuttora), come detto, Skriniar. Marotta e Ausilio, probabilmente, si sono cullati troppo su un accordo informale, pensando di poter vendere lo slovacco con calma e di poter acquistare il brasiliano a condizioni favorevoli, magari negli ultimi giorni di mercato.
Il problema è che la trattativa col Psg è diventata lunga, fra le richieste nerazzurre (70 milioni) e le offerte dei parigini (intorno ai 60). Davvero non si poteva accelerare, come ha fatto la Juventus con il Bayern per De Ligt? Già, perché la tempistica con cui bianconeri e bavaresi hanno chiuso l’affare non è stata affatto casuale. Una volta sfumato Koulibaly, a Torino hanno capito che – in Serie A – solo Bremer avrebbe potuto sostituire l’olandese e allora hanno velocizzato. Nel frattempo, Marotta e Ausilio hanno avvertito (troppo tardi, evidentemente) il rischio di un inserimento juventino, fissando un incontro con il Torino per lunedì. Le modalità non sono state delle più sagaci: la notizia è diventata di dominio pubblico nella serata di venerdì (sabato e domenica non si lavora?), i bianconeri hanno avuto il tempo di chiudere l’affare De Ligt nel weekend e poi inserirsi con decisione per chiudere, come è puntualmente accaduto. Davvero non si poteva gestire meglio? Ma soprattutto, Skriniar a parte, è normale che l’Inter non abbia ancora messo insieme un euro da una cessione? Anche la trattativa Pinamonti è diventata una telenovela infinita. Con i soldi dell’attaccante in meno, probabilmente le cose avrebbero potuto prendere una piega differente.
C’è da dire, a discolpa della dirigenza, che se il mondo è consapevole del fatto che tu abbia bisogno (per l’ennesima volta) di liquidità per “sopravvivere”, allora è normale che il mondo con te giochi al ribasso. E qui veniamo al nocciolo.
La proprietà: un film già visto…
La strada Zhang è senza uscita. Ma non si faccia l’errore di credere che alcune assurdità gestionali nascano oggi o l’anno scorso. Molti prendono a riferimento l’estate 2019 come la condensazione di grandeur della proprietà svanita, sfortunatamente, dopo la pandemia. Bene, ma ricordate le estenuanti trattative per Barella e Lukaku? Il primo arrivò mantenendo la parola data all’Inter nonostante un’offerta superiore da parte della Roma (fece quello che non ha fatto Bremer, per intenderci), il secondo era ormai diretto verso la Juventus e l’affare saltò grazie a Dybala che rifiutò il Manchester United e a Conte che quasi distrusse l’hotel nel quale alloggiava l’Inter. La proprietà non è nuova a questi modi di fare stravaganti in sede di mercato. Succedeva anche nel 2017, quando all’improvviso “si chiusero i rubinetti”. Non c’era una pandemia con cui giustificare l’ingiustificabile. Eppure questo venne, ugualmente, giustificato.
Oggi, però, siamo a un punto di non ritorno. Non è possibile che un club come l’Inter debba fare costantemente un attivo di mercato monstre; non è possibile che giocatori forti, giovani e legati alla maglia come Skriniar vengano messi alla porta; non è possibile che si chieda alla dirigenza di costruire una squadra competitiva sempre sotto il segno più, più e ancora più; non è possibile rimandare sempre gli esborsi economici con i “pagherò”; non è possibile che l’anno scorso l’Inter sia stata la squadra con l’attivo di mercato più alto non solo di tutta Europa, ma della storia del calcio; non è possibile reinvestire il 20% del ricavato; non è possibile prendere in giro i tifosi con un prestito che possa stimolare la nostalgia e nel frattempo, di sottecchi, con altre operazioni, mutilare l’identità; non è possibile calpestare, giorno dopo giorno e anno dopo anno, una storia meravigliosa di un club meraviglioso, esponendolo a figuracce come quella di ieri. “La strada Zhang è senza ritorno“, diceva Paolo Condò un anno fa, dopo la cessione di Lukaku. Quelle parole, oggi più di ieri, si rivelano perfettamente aderenti ad un contesto sempre più assurdo.
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