Roberto Mancini, ct della Nazionale, ha scritto una lettera aperta pubblicata dalla Gazzetta dello Sport dopo la morte di Sinisa Mihajlovic. “Da ieri non ho più un fratello. Anche se di questo legame di sangue a volte ormai si abusa, nel parlare di amicizie, non mi sento di esagerare nel definirlo così: per me Sinisa lo era davvero, perché è stata la vita a renderci tali. Prima il calcio, e poi la vita”.
“Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere. Penso solo a quanto sia ingiusto che una malattia così atroce si sia portata via un ragazzo di 53 anni, un uomo buono, una persona perbene. È difficile trovare altre parole quando è passato così poco tempo dall’attimo in cui mi sono detto: “Roberto, stavolta davvero non potrai più vederlo”. Ieri non c’era già più: l’ultima volta che mi ha parlato non solo con quegli occhi che sapevano dire più delle parole, occhi che a volte ti costringevano ad abbassare i tuoi, è stato martedì mattina. Me la porterò dentro per sempre quella chiacchierata: cose nostre come ce ne siamo dette tante, in quasi trent’anni”.
“Sono stati ventotto, per la precisione. Compagni di squadra e di panchina, sempre di spogliatoio perché anche, forse soprattutto, lì dentro ci siamo conosciuti fino a piacerci, a capirci, a litigare, comunque a diventare spalla uno per l’altro, quando per l’uno o per l’altro diventava necessario. Ventotto anni di calcio e di vita: ho visto crescere il calciatore e il leader che chiunque sa di calcio avrebbe voluto nella sua squadra. Ho visto come punizioni straordinarie possono diventare perfette, “impossibili”, perché davvero io non ho mai visto nessuno calciarle come lui, per me era senza dubbio il migliore del mondo. Ho visto nascere l’allenatore che sarebbe diventato e anche i suoi figli, la gioia nel diventare padre e l’orgoglio, anche la paura, di guardarli crescere, perché certe nostre strade si sono intrecciate sempre di più. Quasi fosse inevitabile, ad un certo punto”.