Il sapore del giorno dopo è di quelli appaganti per la soddisfazione vissuta, riconcilianti con il senso di questo sport e almeno in parte con l’amarezza che ancora perseguita molti tifosi per quanto successo otto mesi fa. A Riyad non c’è stata storia, l’Inter ha letteralmente abbattuto il Milan. Un 3-0 in finale ha già intrinsecamente qualcosa di iconico e magnifico, ma se lo ottieni in un derby, per tutto quello che ultimamente significa, allora il valore è doppio e va oltre una Supercoppa. E d’altronde, come si era detto, considerata la situazione attuale in campionato con una squadra che ha preso il volo, ogni trofeo diventa occasione da non fallire per qualificare una stagione. L’Inter se lo è portato a casa ed è ancora in corsa per la Coppa Italia, mentre il Milan è praticamente nella stessa situazione dei nerazzurri in Serie A e in Champions League, ma eliminato dalla coppa nazionale. Al momento, nel lato giusto della città sembra esserci una marcia in più.
L’Inter ha svolto con successo i compiti che l’avevano condannata nei derby precedenti. Ha attaccato con efficacia la difesa rossonera, ma soprattutto è stata brillante in fase difensiva: cosa che, in una stagione così, non capita tutti i giorni e non è un segnale da sottovalutare. Ci è riuscita grazie a un Simone Inzaghi che ha azzeccato tutto, cambiando gli uomini rispetto alle precedenti stracittadine. Se Dumfries aveva spesso perso i duelli con Theo, questa volta Darmian non solo ha limitato alla grande il francese, ma ha anche aiutato costantemente Skriniar con i raddoppi su un Leao che solo in un paio di occasioni ha insidiato la retroguardia nerrazzurra. Se De Vrij vedeva ormai in Giroud una nemesi dopo i derby di febbraio e settembre, il piacentino ha scelto il fedelissimo Acerbi che, dopo Osimhen, ha aggiunto un altro nobile scalpo alla sua collezione in maglia nerazzurra, non facendola vedere mai al numero 9 avversario.
L’Inter, in generale, ha interpretato la gara esattamente come doveva. Niente ricerca del possesso e di un dominio del gioco tanto sterile quanto illusorio, ma tanto pragmatismo e rapidità nel ribaltare le azioni e nel portarle a termine: ha chiuso con il 34% di possesso palla, ma ha tirato in porta il doppio delle volte degli avversari. Ci è riuscita grazie a un centrocampo che ancora una volta si è dimostrato fenomenale e affidabile, con quei tre che ormai si trovano ad occhi chiusi: la qualità di gioco di Barella, Calhanoglu e Mkhitaryan ormai viene costantemente abbinata alla voglia e alla grinta in fase difensiva, ricorrendo a quelle “corse per gli avversari” che Inzaghi aveva chiesto nella conferenza prepartita. Se poi davanti hai due giocatori in forma galattica come Lautaro e Dzeko, tutto diventa più facile. Altra partita eccezionale del bosniaco, che l’ha impreziosita con una finta che ha mandato al bar Tonali e un gol che ha pesantemente indirizzato l’esito della partita. E poi c’è un Toro da favola. Sì, ha fatto un gol da fuoriclasse, ma non conta solo quello nella sua partita e nel suo momento. Da quando è tornato dal Mondiale, sembra essersi appropriato di una sicurezza che prima non aveva, di una personalità che – già forte – è diventata di ferro e si traduce nella capacità di difendere palla, di esibirsi in tocchi di fino al momento giusto e con efficacia, di duellare con gli avversari e poi di emergere come fatto contro Tomori in occasione del 3-0.
Inzaghi si conferma re di Coppe. Con il trionfo di ieri, siamo a sei titoli nazionali: quattro Supercoppe (su quattro giocate) e due Coppe Italia (su tre giocate, con una sola sconfitta nel 2017 contro la Juventus). Non può essere un caso, se praticamente sempre il piacentino indovina la partita e la tattica: significa che questo allenatore, nelle gare secche, ci sa proprio fare. E lo ha dimostrato anche in Champions League fra l’anno scorso e quest’anno, competizione nella quale i nerazzurri hanno sempre ben figurato e solo due mesi fa hanno passato un girone contro Bayern e Barcellona. A Inzaghi, per fare il grande salto, si chiede di migliorare sul lungo e quindi in campionato. Difficile, a questo punto, credere ad una rimonta su un Napoli a +10, ma fare un grande girone di ritorno aiuterebbe nel processo di crescita suo e dei suoi ragazzi. Anche il tecnico nerazzurro aveva una gran voglia di rivincite, evidentemente, dopo i bocconi amari che gli sono toccati a maggio. Sì, perché su quel pullman scoperto del 23 maggio che trasudava cafonaggine e rispecchiava lo stile Milan, hanno insultato pure lui. Ma non lo ha ricordato. Altri, evidentemente più coinvolti, non hanno potuto farne a meno.
Ieri sera c’era un’evidente voglia di rivincita e una sacrosanta rabbia negli occhi dei giocatori nerazzurri. L’hanno trasposta in pieno sul campo, cosa che non erano riusciti a fare a settembre, distruggendo i rivali sul terreno di gioco. Ma la cosa più bella è che lo abbiano fatto anche fuori.
C’era, più che in ogni altro, in Hakan Calhanoglu. Molti hanno denunciato una mancanza di stile. E no, perché a maggio non si è trattato di sfottò e insulti da parte dei tifosi, ma di un aizzamento portato avanti dagli stessi giocatori del Milan con cori e inviti a continuare ad insultarlo. Logico che una vittoria così ampia, un 3-0 così netto, abbia liberato Hakan di un peso: “Il karma torna, li abbiamo mandati a casa velocemente. Li abbiamo mangiati“. Molto sincero è stato Alessandro Bastoni, il quale ha affermato che “volevamo vendicare i festeggiamenti che ci hanno fatto in faccia l’anno scorso, ce li siamo segnati tutti“. Meno esplicito ma ugualmente tagliente Edin Dzeko, che si è limitato a ricordare che “quando si vince bisogna rispettare l’avversario. Noi stasera lo abbiamo fatto“.
Ancora una volta, stili a confronto. E a questo livello, la storia lo insegna, non c’è partita. Ieri non c’è stata neppure sul campo. E adesso l’Inter ha tutto quello che serve per un grande girone di ritorno, per provare a (ri)vincere anche la Coppa Italia e far sognare un popolo nelle notti di Champions, dove non avrà nulla da perdere.