Notte di coppa, notte di estasi. L’Inter non si smentisce e regala al suo popolo un’altra grande partita nel momento in cui è spalle al muro. A San Siro, ieri sera, si giocava praticamente una finale. E non perché fosse “anticipata”, visto che sulla carta Fiorentina e Cremonese sono inferiori rispetto alle rose di Inzaghi e Allegri: l’ultima gara, a Roma, è da vincere e nulla è scritto in quel senso. Piuttosto, era il risultato dell’andata – unito all’abolizione della regola del gol in trasferta – a configurare tale scenario: nella notte di Milano, a una delle due serviva necessariamente vincere.
Ci è riuscita l’Inter e lo ha fatto con pieno merito. Il primo tempo ha sancito una superiorità schiacciante dei nerazzurri, oltre a denotare una preparazione della partita opposta fra i due allenatori: benissimo Inzaghi che ha dominato col centrocampo e con le sovrapposizioni costanti dei terzi di difesa Darmian e Bastoni, malissimo Allegri che non ci ha capito nulla, a partire dall’esperimento fallito di Chiesa come falso nove. L’Inter poteva segnare di più per quanto mostrato nei primi 45 minuti: all’intervallo, il solo gol di Dimarco suonava come una beffa, a fronte delle occasioni di Lautaro e delle numerose possibilità vanificate da errori tecnici o concettuali nell’ultimo passaggio.
C’era il rischio di rimpiangere questa mancata capitalizzazione del dominio, questa beffarda magnanimità che aveva tenuto in vita la Juventus. I bianconeri, però, pur tenendo più palla nel secondo tempo, hanno fatto sostanzialmente il solletico all’Inter, limitandosi a un paio di conclusioni da fuori di Miretti e Di Maria. La prova del Fideo è stata particolarmente simbolica dello spirito nerazzurro: Henrikh Mkhitaryan ha disputato un’altra gara totale, eccezionale, annullando l’argentino e non facendo mai mancare il proprio eccelso contributo tecnico in fase offensiva. Insieme a Barella e Calhanoglu, l’armeno ha sovrastato l’omologo reparto avversario composto da Rabiot, Locatelli e Miretti.
E come non parlare della difesa? Applicazione ininterrotta, con un Darmian che non smentisce il suo status di certezza, un Acerbi che – a dispetto dell’età – non smette di sorprendere sovrastando anche il subentrato Milik e un Bastoni maturo a tal punto da limitare le sgroppate offensive nel secondo tempo, dimostrando che quando c’è da difendere, si difende e lo si fa bene.
La firma di Simone Inzaghi
La qualificazione ottenuta contro la Juventus è solo un altro capitolo di un cammino biennale dell’Inter nelle coppe che dice tantissimo sulla gestione Inzaghi. In questa sede siamo stati – e siamo – i primi a criticare lucidamente il tecnico per il cammino largamente insufficiente e inaccettabile in campionato, ma con la stessa lucidità bisogna registrare una predisposizione ormai acclarata a disputare partite da dentro o fuori. Sarà la preparazione tattica, sarà la mentalità trasmessa, saranno le motivazioni dei giocatori, ma ora non si può più parlare di “caso“.
Basta snocciolare qualche dato: l’Inter ha eliminato la Juventus per la prima volta nelle semifinali di Coppa Italia. Simone Inzaghi ha avuto la meglio sui bianconeri nelle coppe europee per la quinta volta consecutiva fra Lazio e Inter: Supercoppa 2017 e Supercoppa 2019 con i biancocelesti; Supercoppa 2022, Coppa Italia 2022 e semifinali Coppa Italia 2023 con i nerazzurri. Il tecnico piacentino, che ha già vinto tre finali su tre alla guida della Beneamata (due volte contro la Juventus e una contro il Milan), raggiunge così la quarta finale della sua gestione e assicura all’Inter anche la partecipazione certa alla prossima Supercoppa, che avrà luogo con la nuova formula delle Final Four. Nel giro di due anni, fra Coppa Italia e Supercoppa ha battuto Roma, Atalanta, Milan (due volte) e Juventus (tre volte). Troppe, per parlare di casualità. E se estendiamo il raggio alla Champions League, dove l’Inter ha raggiunto una semifinale tanto insperata quanto attesa da ben 13 anni, il quadro si completa e l’analisi trova le sue risposte, comunque vada nell’euroderby.
Al termine della gara di ieri, Simone Inzaghi ha ribadito che per l’Inter “deve diventare un’abitudine giocare finali in stadi importanti“. Ebbene, forse lo è già diventata, un’abitudine. E la firma del piacentino non va solo ascritta a questa frase, bensì a un intero percorso che – piaccia o non piaccia – ha determinato una caratteristica forte della sua squadra, un segno riconoscibile della sua gestione, un’eredità virtuosa che comunque vada lascerà a Milano per un eventuale successore.
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