Stefano Turati, portiere del Frosinone, ha concesso un’intervista al settimanale Sportweek dove ha parlato del suo mai nascosto amore per l’Inter.
La tua ambizione?
“Vincere la Champions da capitano dell’Inter”.
Sui social gira la tua foto tra gli ultras nella finale dell’ultima Coppa Italia vinta sulla Fiorentina. Ma come hanno fatto a riconoscerti?
“Non lo so (ride ndr). Mi hanno ripreso su Dazn e il giorno dopo mi hanno chiamato non so in quanti… Al Frosinone non mi hanno detto niente. Del resto, a Grosso lo avevo annunciato: mister, io vado a vedere la finale di Coppa. Volevo pure salire a Milano per il derby di Champions: mister, io per Milan-Inter e Inter-Milan non ci sono! Si mise a ridere pensando che scherzassi, solo che io non scherzavo. Ma all’andata non eravamo ancora promossi in A e non mi ha dato il permesso. Mi sono accontentato del ritorno”.
E quando hai giocato contro l’Inter, un mese e mezzo fa?
“Volevo fare la partita della vita. Il momento più emozionante è stato il riscaldamento, che ho fatto con la Nord di fronte. Devi capire che io ho passato anni in curva, i miei amici sono lì. Pensavo: cavolo, ero uno dei settantacinquemila e adesso sono uno dei ventidue. Mi faceva effetto. È passato quando la partita è iniziata”.
Al gol di Dimarco, che ti ha fatto secco da più di cinquanta metri, ti è venuta voglia di applaudire o ti sei detto: sono un pollo?
“Me ne sono dette di tutti i colori, altro che. Non ci ho dormito la notte. Secondo me è stato un cross sbagliato, ma ormai è passata”.
Interista per parte di…?
“Mio padre era interista, ma un po’ tutta la famiglia. Che oggi è formata da mia madre Roberta, mia sorella più grande e me. Mamma mi ha salvato la vita”.
In che senso?
“Costringendomi a continuare col calcio. Io a 13 anni non ne volevo più sapere. Volevo andare al parchetto con gli amici. Ero arrivato all’Inter da bambino, giocavo nella squadra della mia vita, ma c’erano altri più pronti di me e io ero messo in disparte. Poi a quell’età ero un introverso, stavo sulle mie, mi sono sbloccato soltanto in seconda superiore. Insomma, mi aggrappavo al corrimano delle scale e alla portiera della macchina, pur di non andare all’allenamento, e mamma mi spingeva dentro a forza. Lei è la sola persona che temo nella vita. Ricordo ancora il suo sguardo in quei momenti. È di Madonna di Campiglio, una donna di montagna: forte dentro e fuori. A lei non importava che io diventassi un calciatore, ma voleva che imparassi ad affrontare le difficoltà. E mi ha obbligato a continuare. Quando l’Inter mi mandò via, decisi di chiudere. Invece andai a Pavia, e lì c’era Paolo Girotti. Per me è stato più di un allenatore dei portieri: mi ha protetto, aiutato, mi ha fatto tornare la voglia. Mi sono sentito curato. È stato un padre, sì, che mi ha accompagnato nella crescita, anche se io non ho mai sognato di diventare un calciatore. Sono andato a Sassuolo più che altro per lasciare Milano”.
Idoli?
“Da bambino Julio Cesar, Zanetti, Materazzi. Julio Cesar mi ha fatto innamorare del ruolo: era troppo “stiloso”. Oggi mi piacciono Donnarumma e Vicario, due fenomeni. Poi, vabbé, Maignan gioca da solo. Szczesny, Di Gregorio, mio fratello, e naturalmente Sommer”.